Non basteranno allenatore e rinforzi in rosa per rilanciare la Juventus, serve l'orgoglio di un dirigente alla Boniperti
Che Juventus sarà quella che Giuntoli sta costruendo e che Thiago Motta sarà chiamato a plasmare? A parte un portiere, certamente bravo, ma non così bravo, a mio parere, come il polacco dato in “uscita”. A parte i giocatori da accompagnare all'uscita (non faccio i nomi, sono sulla bocca di tutti, ma devo dire che l'idea di vedere ancora a Torino il “pizzardone” francamente mi sconcerta), è arrivato (forse con la sua bellissima compagna, più brava come influencer, pare, che come calciatrice) Douglas Luiz. Fenomeno, ha spiegato il collega Marianella di Sky che lo conosce bene. Io, visto che non lo conosco, non mi esprimo. Ma vi racconto un episodio del passato, che forse conoscete o forse no.
La Juventus aveva preso un irlandese talentuoso: Liam Brady, architetto del centrocampo, esteticamente bellissimo. Giocava nell'Arsenal ed era adorato dai suoi tifosi. Alcuni anni più tardi, durante un'intervista a Londra, chiesi a Nick Hornby, il celebre romanziere “malato” di Arsenal, chi fosse, a suo parere, il più grande calciatore del dopoguerra. Mi aspettavo dicesse Di Stefano, o Maradona, o Pelé. Con mia grande sorpresa, senza esitazione, rispose: “Liam Brady”. Che per la Juventus segnò un rigore decisivo a Catanzaro, senza tremare, e che valse l'ennesimo scudetto. Pur sapendo che avrebbe dovuto lasciare Torino, perché nel frattempo Gianni Agnelli si era invaghito di un francese, bello quanto lui da vedere, genio del centrocampo anche lui, ma che segnava il triplo rispetto a Liam. Si chiamava Michel Platini: per tutti gli juventini, semplicemente Michel Roi.
Ecco: c'è stato un tempo nel quale la Juventus cedeva uno come Brady per sostituirlo con uno come Platini. Era una Juventus con una proprietà e una dirigenza assai diverse rispetto a quella attuale. Erano tempi nei quali l'Avvocato, avvicinato dai giornalisti, commentava la sconfitta della Roma in campionato affermando: “Bravissimi e commoventi: chapeau”. E che all'insistenza dei cronisti, regalava una battuta delle sue: “Noi? Beh, noi siamo la Juventus”. E non era un plurale maiestatis. Non siamo catalogabili. Siamo una pera in un cesto di mele. E notoriamente le pere sono più saporite delle mele.
La morale di questo aneddoto? Non basteranno un bravo allenatore, un bravo dirigente, bravi giocatori per far tornare a sognare i tifosi. Servirà (servirebbe) qualche cosa di più ai “piani alti”. Non è una questione di investimenti e di quattrini. È una questione di “pelle”. I Boston Celtics, che da poco hanno vinto il 18esimo titolo in NBA, lo chiamano “pride”. La traduzione è “orgoglio”, ma a Boston è qualche cosa di più. La maglia dei Celtics è verde: ci sono grandi giocatori del passato di Boston che il sangue non ce l'hanno rosso, ce l'hanno verde. Ora, per come la vedo io, esiste un solo uomo in circolazione che il sangue non ce l'ha rosso ma bianconero. Il suo antico principale qualche volta lo chiamava Godot, più frequentemente Pinturicchio. E sempre per come la vedo io (e con tutto il possibile rispetto per chi apre i cordoni della borsa) non basta avere la cassaforte piena per gestire un club calcistico. Averla rifornita serve, ma non basta: come ben sanno a Parigi. Serve avere “competenze” che è impossibile delegare. Serve comprendere quello che solo chi è stato sul campo può intuire. Non a caso, il più grande presidente della Signora (mi scuseranno gli Agnelli, del passato più remoto e di quello più recente) è stato Giampiero Boniperti: l'uomo chiamato Juventus.
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