Un intoccabile arriva dall’Atalanta ed è la STORIA
Premessa - I nuovi acquisti in arrivo, ma anche quelli che già vestono oggi la casacca bianconera, male non farebbero a conoscere le gesta degli Uomini che li hanno preceduti; del resto Vialli, saggio fuoriclasse, a Coverciano accoglieva i calciatori con un libro nel quale erano riportate frasi di campioni del passato sul significato della maglia azzurra, e l’Italia dopo 53 anni tornò ad essere la regina d’Europa. A Voi, deduzioni e riflessioni.
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La schiena dritta, la compostezza, l’eleganza non per forma ma per sostanza naturale, la pulizia in ogni tocco e in ogni movimento da mezzala con i piedi buoni e l’idea di gioco, per poi venire reinventato come libero all’Atalanta. Per un paio d’anni fa coppia con Percassi, l’attuale presidente dei nerazzurri. Giocava a testa alta, sicuro e sereno anche nella baraonda.
Era il 1974, tra la fine della primavera e l’inizio della cosiddetta bella stagione: in Italia si vota e nel referendum per l'abrogazione della legge sul divorzio il NO vince con il 59,3%; la Lazio conquista il suo primo scudetto; in Francia Valéry Giscard d'Estaing è il nuovo presidente della repubblica; nel pieno degli anni di piombo a Brescia esplode una bomba in piazza della Loggia durante una manifestazione sindacale provocando 8 morti e 101 feriti; la Germania (all’epoca Ovest) si laurea campione del mondo. E mentre Cocciante cantava Bella senz’anima e Cat Stevens la sua Oh Very Young… in quel caldo 1974 la Juventus, dopo una trattativa privata tra Gianni Agnelli e il presidente bergamasco Bortolotti, acquista - per settecento milioni di lire più Mastropasqua, Marchetti e Musiello - un ventenne che da bambino sognava Suárez e Rivera e la maglia numero 10: fantasticava la regia di un capolavoro. Ugualmente, seppur con la maglia numero 6, ha realizzato il suo sogno.
Quel ragazzo era Gaetano Scirea. Un diamante unico e raro, la perfezione in campo e fuori, il calciatore gentiluomo. Elegante e nobile per natura, fiero, corretto e leale, mai una espulsione; avvolto da un carisma e un aplomb anglosassone, da una calma olimpica anche nei momenti più concitati, sempre al posto giusto, nel momento giusto, con una modestia e umiltà fuori dal comune: già campione del mondo eppure a rivolgergli la parola arrossiva. Incomparabile.
Un angelo piovuto dolcemente dal cielo, purtroppo richiamato lassù troppo presto. Non ve ne sarà mai uguale. Era il direttore d’orchestra della difesa, era il libero della Juventus e della Nazionale, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, tra i più forti del mondo nel suo ruolo. Un calciatore universale, senza tempo, per il suo modo di interpretare il calcio. Scirea avrebbe potuto giocare da protagonista in qualsiasi epoca e con qualunque squadra: nel “Metodo” dell’Italia bicampione del mondo di Vittorio Pozzo, come centromediano metodista, fulcro del gioco; nel “Sistema” del Grande Torino di Valentino Mazzola e dell’Ungheria di Puskas; come centrale difensivo nel Brasile del ’58 in uno spettacolare 4-2-4 e nell’Olanda, l’Arancia Meccanica del ’74 del calcio totale di Johan Cruijff, dialogando da pari con Neeskens e Jansen. Un centrocampista in più quando la sua squadra aveva il possesso della palla, un regista nella sua area di rigore, un difensore in più con palla agli avversari, una sicurezza per i suoi compagni di reparto che marcavano e potevano giocare d’anticipo, sapendo di avere alle spalle una polizza assicurativa garantita a vita.
Completava il repertorio con sortite offensive di esemplare puntualità, erigendosi a match winner, come fu contro il Torino in un epico derby del 7 marzo dell’82, con una splendida doppietta. Gai si trasformò in uomo-assist nella finale del Campionato del Mondo in Spagna, contro la Germania Ovest, quando nell’area di rigore dei teutonici, dopo un memorabile scambio di tacco con Bergomi, vide Tardelli al limite dell’area, al quale regalò, con un tocco vellutato, la sfera, diventando così per sempre il coprotagonista del gol dall’urlo più famoso di tutti i tempi.
In campo si muoveva da leader: non urlava mai, pur dando indicazioni ai compagni che vedevano in lui il naturale punto di riferimento. Tecnicamente completo, un difensore dai piedi da mezzala, dal tocco di palla preciso e dalla nitida visione di gioco. Leggerezza e naturalezza le doti che ne fecero un Campionissimo: superlativo assoluto un tempo tributato all’immortale Airone, Fausto Coppi.
Nacque a Cernusco sul Naviglio il 25 maggio 1953. Esordì in Serie A il 24 settembre del ’72 con il club orobico in Cagliari-Atalanta 0-0, tenendo a bada Gigi Riva; a Bergamo restò due anni, disputando 70 partite e segnando due gol. L’ottimo rapporto tra le società fece sì che la Juventus, che già lo teneva sotto osservazione dall’esordio nella massima serie, lo acquistò nell’estate del ’74. Si cercava un sostituto all’altezza del libero Salvadore, prossimo al ritiro: trovarono il migliore di tutti.
Si ritirò dal calcio giocato all’età di trentacinque anni, dopo aver disputato 554 partite con la maglia bianconera numero 6, con 32 gol all’attivo. Con la Juventus vinse tutto: sette scudetti, due Coppe Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Supercoppa Uefa e una Coppa Intercontinentale, divenendo il primo calciatore in assoluto, assieme al suo compagno di squadra Cabrini, ad aver vinto tutte le competizioni calcistiche ufficiali per club e contribuendo, allo stesso tempo, a rendere la Juventus la prima squadra a poter esibire in bacheca tutti i tornei organizzati dall’Uefa. Per un decennio fu colonna inamovibile della difesa della Nazionale, vantando 78 presenze, dieci delle quali da capitano, siglando due reti. Con Zoff, Gentile e Cabrini, al grido di “tutti per uno, uno per tutti” fu il nobile moschettiere di una delle migliori linee difensive della storia del calcio mondiale. Esordì il 30 dicembre ’75, nella partita amichevole Italia-Grecia. Sotto la guida tecnica di Enzo Bearzot, prese parte al Campionato del Mondo del ’78 in Argentina, dove l’Italia si classificò quarta, giocando un calcio spettacolare. Partecipò al Campionato d’Europa del 1980 organizzato in Italia, ove gli azzurri, sfortunatamente, arrivarono ancora quarti. Trionfò in Spagna con i suoi compagni al Campionato del Mondo del 1982. Infine, da capitano, giocò il mondiale dell’86 in Messico, che a trentatré anni segnò anche la fine della sua carriera azzurra, coincidente con l’eliminazione agli ottavi di finale contro la Francia.
Alla notizia in diretta, alla Domenica Sportiva del 3 settembre 1989, della sua tragica morte avvenuta a causa di un incidente stradale in Polonia, dove lui, fedele allenatore in seconda della Juventus di Zoff, era andato a osservare la squadra prossima avversaria dei bianconeri, Sandro Ciotti commosso disse: «È inutile spendere parole su un uomo che si è illustrato da solo per tanti anni su tutti i campi del mondo, che ha conquistato un titolo mondiale con pieno merito e che era un campione non soltanto di sport ma soprattutto di civiltà». Ha sempre ripetuto con fierezza e gioia: «La Juventus è qualcosa di più di una squadra, non so dire cosa, ma sono orgoglioso di farne parte». Il giorno dei funerali l’Avvocato Gianni Agnelli trascorse l’intera omelia in piedi, per rendere omaggio all’uomo che meglio di ogni altro aveva saputo rappresentare lo stile Juve.
Scirea è di tutti, tifosi e non, bianconeri e non solo. È di tutti per la sua pulizia, i suoi modi così rari oggi, manca il suo clamoroso silenzio. Un modello da imitare, anche se era inimitabile; un’eco infinita di eleganza nel vento. In Paradiso avevano bisogno di un angelo vestito di bianconero che sapeva giocare a pallone; incontrandolo nei prati azzurri, Gustavo Dorè non avrebbe ritratto un angelo in maniera dissimile da Gaetano Scirea.
Roberto De Frede
P.S. che la carrellata di eroi domenicali da me descritti in questo periodo caldo, possa essere da sprone al calciomercato d’oggi, riconsegnando e rinnovando forza, passione e gloria alla maglia bianconera! Al prossimo acquisto…
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