Motta e una novità antica

Motta e una novità anticaTUTTOmercatoWEB.com
Oggi alle 00:01Editoriale
di Roberto De Frede
Le vecchie abitudini, anche se cattive, turbano meno delle cose nuove e inconsuete. Tuttavia, talvolta è necessario cambiare, passando gradualmente alle cose inconsuete. Ippocrate di Coo

Mi hanno sempre colpito ed emozionato le pagine iniziali dei Pensieri di Marco Aurelio, dove l'imperatore filosofo ringrazia quanti lo hanno consigliato, soccorso e soprattutto, formato sin dalla più giovane età: «Devo a mio nonno [...] devo a mio padre [...] devo a mia madre [..] devo al mio bisnonno [..] devo al mio precettore [...]»; un lungo elenco che si completa fino a ricordare per nome, a uno a uno, tutti i maestri, i parenti, gli amici e i bravi servitori. Quella del discepolo e dell'erede è una condizione improntata non all'assicurazione ma all'incertezza, a un ruolo non passivo bensì attivo, autonomo, addirittura antagonistico. «Ciò che hai ereditato dai padri, conquistalo per possederlo»: con queste parole Goethe ci ricorda che l'eredità è un capitale da far fruttare e non un patrimonio inerte da conservare.

Motta pare un pragmatico, uno che ha studiato la storia del passato calcistico, facendo di necessità virtù, non a caso il maestro Bosco l’ha paragonato a Heriberto Herrera, e non perché gli rassomigli, a guardar bene, anche un po’ in volto e nella postura. La scelta di HH2, uno dei nomignoli del paraguaiano, negli anni Sessanta non fu casuale, ma determinata dalla società, perché la Juventus attraversava un momento poco propizio e denunciava una pericolosa irrequietezza interna. Era necessario un allenatore di carattere che nulla concedesse ai capricci dei giocatori. E quello era l’uomo giusto, nuovo ma non sprovveduto: il suo carattere intransigente, fino alla caparbietà che gli impediva ogni cedevolezza, gli aveva donato il soprannome di sergente di ferro. Militare nel pensiero, negli atteggiamenti, nel rigorismo mentale. L’identità calcistica di Heriberto si può riassumere in una sola parola, il celebre “movimiento”, come ripeteva lui compulsivamente, in campo e fuori campo. Bisogna riconoscere che Accacchino, come lo appellò Brera, anticipò di qualche anno il calcio totale, e di qualche lustro il pressing asfissiante, l’assenza di posizioni fisse sul campo, l’esaltazione del gruppo sul singolo, e lo scudetto del 1967 testimonia tutto ciò.

Dopo quasi sessant’anni si spera che la storia si ripeti: una rivoluzione, a questo punto “reazionaria”, ricordando, quella vera, originale del ‘67, facendone tesoro.

Del resto rivoluzione è una parola ambigua, che da un lato indica il mutamento repentino e radicale, dall’altro evoca il ritorno ciclico delle cose al loro stato d'origine, come è per la rivoluzione terrestre. Parola adatta a configurare fenomeni che accompagnano l'intera storia dell'Occidente, fra rivoluzioni che si traducono in drastiche restaurazioni, e restaurazioni che occultano il proprio carattere rivoluzionario. Paradossale il caso di Roma che da emblema della conservazione diviene luogo privilegiato di "rivoluzioni" continue: dalla cacciata dei re alle secessioni aventiniane, dalla lunga crisi della Respublica fino al cesaricidio; per arrivare a quella esemplare rivoluzione mascherata da restaurazione che fu con Augusto l'istituzione dell'Impero. Gioverà riflettere su tali paradossi, specie in tempi come il nostro, quando i conservatori vestono spesso e volentieri la maschera dei novatores, e quando forse autentica rivoluzione è soltanto saper "conservare(servare), cioè custodire e rispettare i valori della nostra storia.

In conclusione quale direzione scegliere? Una risposta valida credo possa venire dalla lezione del Petrarca, il quale - consapevole del proprio ruolo di ponte tra classicità e modernità, tra passato e futuro, tra patres e posteri - si vedeva collocato sul confine di due popoli con lo sguardo rivolto contemporaneamente avanti e indietro (Libri sulle cose da ricordare, 1, 19: simul ante retroque prospiciens). Guardare solamente in avanti e recidere i fili col passato in una sorta di mania utopistica e furia futurista, senza un adeguato equipaggiamento e punti di riferimento, è rischioso come correre senza freni o a fari spenti nella notte; tenere lo sguardo solamente rivolto all'indietro in adorazione feticistica del passato, senza alcun moto di curiositas e di passione per la novità, significa esaurirsi, non crescere, rassegnarsi a una vita rattrappita.

Non diversamente la pensava Steve Jobs il quale, nel famoso discorso del 2005 "Siate affamati, siate folli" dichiarava agli studenti di Stanford: «Non è possibile unire i punti guardando avanti; potete unirli solo guardando indietro. Dovete avere fiducia che in qualche modo, nel futuro, i punti si possono unire».

Questa Juventus ha capito la lezione dopo lo scontro con la Lazio? Lo speriamo tutti, e seppur con fatica ora quei punti più che unirli, bisogna cominciare ad accumularli.

Roberto De Frede