"Finalmente è bianconera l’ala “brasiliana” per Thiago Motta"

"Finalmente è bianconera l’ala “brasiliana” per Thiago Motta"TUTTOmercatoWEB.com
domenica 21 luglio 2024, 23:59Editoriale
di Roberto De Frede
Viviamo in un mondo di ombre e la fantasia è un bene raro. (Carlos Ruiz Zafón)

Il periodo del calciomercato prosegue senza soste. Gli addetti ai lavori bianconeri stanno facendo un buon servigio per ritrovare alla prima di campionato una Juventus competitiva e nuovamente vincente. È difficile, come lo è in una società la quadratura dei conti. Ci stanno provando con tutte le forze che hanno in dotazione, facendo ogni tanto anche di nuovo sognare i tifosi con nomi che esaltano il futuro prossimo come Jean-Clair Todibo che pare voglia soltanto la Juve, Riccardo Calafiori non ancora deciso di varcare La Manica, e Jadon Malik Sancho una veloce e fantasiosa ala destra britannica… e a proposito di ali…italo”brasiliane”…

Era il 1970. I Beatles si riuniscono per l'ultima volta in uno studio di registrazione per concludere l'incisione dell'album Let it Be, che uscirà dopo pochi giorni il loro scioglimento; in Italia è approvato lo statuto dei lavoratori, legge 300, che sancisce i diritti dei dipendenti sul luogo di lavoro; si gioca la partita del secolo tra Italia e Germania Ovest ai mondiali messicani e gli azzurri vincono 4 a 3; sull’Isola di Wight oltre mezzo milione di giovani si riunisce per assistere al Festival nel quale suonano Jimi Hendrix, The Doors e Miles Davis; nelle sale cinematografiche ci si innamorava commuovendosi con Love Story e la sua indimenticabile colonna sonora. Già… a proposito dell’innamoramento, tutti i bianconeri lo furono di un ragazzo machiavellico e geniale, estroso e ammaliante, elegante e vincente, carismatico e altruista, umile e saggio:

                                      FRANCO CAUSIO

L’ala destra. Fra tutti, il ruolo più brasiliano, quello che dà sfogo alla fantasia, alla creatività, alla genialità e all’imprevedibilità. Non a caso fu di Mané Garrincha, il più grande di tutti, dribblatore visionario che fece grande il Brasile. Un suo tocco di palla, ed è il delirio sugli spalti. Colui che fa impazzire il terzino sinistro avversario, e non solo. Il numero 7, nella simbologia antica, indica l’espressione della mediazione tra l’umano e il divino. Con la sua Juve, il Barone, questo era il suo soprannome datogli dal giornalista Fulvio Cinti (con l’altro non meno eloquente e significativo di Brasil uscito dalla nobile penna di Vladimiro Caminiti), forse per quei baffoni che incutevano rispetto o per la nobiltà aragonese della sua terra d’origine, comincia a scrivere liriche poesie su quella fascia destra dei prati verdi di tutto il mondo, pennellando parabole dolci tanto zuccherate da far ingolosire tutti i suoi devoti centravanti, che non smetteranno mai di ringraziarlo per gli assist confezionati magicamente. Un’ala dal talento cristallino, dallo scatto progressivo, dal dribbling incandescente ornato da irresistibili finte. Indimenticabili le sue rasoiate di quaranta metri che aprivano il gioco e tagliavano a fettine le malcapitate difese avversarie. Con la sparizione dei centromediani metodisti, diventava di fatto anche il vero regista della squadra, facendo la fortuna dei suoi allenatori.

Nasce a Lecce, il primo febbraio del 1949 e lì esordisce nel calcio professionistico nel campionato di C ’64-65. L’anno dopo è alla Sambenedettese. A quei tempi sulla panchina del Toro sedeva un certo Nereo Rocco che, ad un provino del giovane salentino, apprezza sì il talento del ragazzo, ma dopo qualche giorno sentenzia «xe bon, ma no g’à fisico», e dunque decide di mandare il suo “apprendista” – Enzo Bearzot! – a comunicargli la definitiva bocciatura. Il “no grazie” legiferato dal «Paròn» potrebbe spezzare qualsiasi cosa, ma non la determinazione e la volontà ferrea di uno come Causio, che infatti non molla.

«Camminavamo senza cercarci, eppure sapendo che camminavamo per incontrarci», diceva il grande Julio Cortázar in un passo di «Rayuela», il suo capolavoro. E di fatto la storia tra Causio e la Juventus nasce proprio così, da un raduno per giovani calciatori organizzato dai bianconeri a Forlì. All’epoca la prassi dello scouting esisteva già, ma più che di dettagliati reportage e fascicoli infarciti di statistiche si componeva di una pesca a strascico alla ricerca del pezzo pregiato. Causio arriva in macchina da San Benedetto, entra in campo, fa girare la testa a tutti i difensori, ma viene fermato: un signore lo intima a lasciare il campo. Lui ci rimane male, gli vorrebbe chiedere una spiegazione. Caso vuole che quel signore, oltre a essere un dipendente delle Ferrovie dello Stato, fosse anche il capo scout juventino: Luciano Moggi.

La Juventus lo ingaggia nel ’66. Silenzioso, ma soprattutto rispettoso: gioca con la Primavera, trova un fratello maggiore in Cinesinho e un “maestro di trucchetti” nel tedesco Helmut Haller, nella scalpitante attesa di ricevere una chance dall’allenatore Heriberto Herrera. Nel primo anno in bianconero non scende mai in campo, mentre nella seconda stagione vanta una sola presenza che gli vale l’esordio in A: la partita è Mantova-Juventus (0-0) del 21 gennaio ’68. Dopo un passaggio alla Reggina e al Palermo, è il 1970 l’anno della sua svolta: ritorna alla Juventus, dove milita per undici stagioni consecutive, diventando una delle colonne portanti della squadra.

Nell’estate del ’76 Giovanni Trapattoni, appena arrivato alla Juventus, gli affida la maglia numero 7, offrendogli il ruolo di ala destra pura in un 4-3-3 moderno senza il classico regista, con Scirea libero di avanzare; Tardelli e Benetti incursori in grado di agire in operazioni speciali di commando, assalti, sbarchi e sabotaggi in territorio nemico e Furino tergicristallo a centrocampo. In avanti, Boninsegna centravanti di sfondamento, con Bettega e il baffuto leccese alle ali a fungere da registi d’attacco, con il compito anche di tornare a centrocampo. Una squadra fortissima che si aggiudica nella stessa stagione il campionato (quello dei record, 51 punti) e la Coppa Uefa, il primo trofeo europeo della Vecchia Signora. Memorabile in quegli anni la sana e sportiva rivalità con Claudio Sala, ala del Torino. In maglia bianconera vince sei scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia, contando 305 presenze, impreziosite da 49 reti.

Nell’81 passa all’Udinese, dove gioca per tre anni ad alto livello, riconquistando la Nazionale, prima di trasferirsi nell’84 all’Inter. In nerazzurro rimane una stagione, per poi fare ritorno dopo vent’anni al Lecce, club che lo aveva lanciato agli esordi, e che nella stagione ’85-86 è essa stessa all’esordio in A. Chiude la carriera nella Triestina nell’88.

Con la maglia azzurra della Nazionale scende in campo in 63 partite, con un bottino personale di 6 reti. Partecipa a tre campionati del mondo. Nel ’74, in Germania, con il C.T. Valcareggi, con due gettoni di presenza. Divenuto titolare fisso con Bearzot, prende parte al Campionato del Mondo in Argentina nel ’78, disputando tutti gli incontri, consolando e allietando gli spettatori, non solo italiani, con le sue giocate sudamericane, realizzando un gol di testa e colpendo una traversa nella finalina persa contro il Brasile di Nelinho e Dirceu. A trentatré anni partecipa al vittorioso Campionato del Mondo in Spagna, fregiandosi di due presenze; a dimostrazione della grande stima e in segno di riconoscenza Bearzot lo fa scendere in campo all’ultimo minuto della finale vinta contro la Germania Ovest.

Indelebile nella memoria popolare la partita a scopone nell’aereo presidenziale, di ritorno da Madrid dopo la conquista della Coppa del Mondo. Era in coppia con Bearzot, il presidente Sandro Pertini con Dino Zoff. Il barone fa una mandrakata: cala il 7, pur avendone uno solo. Pertini lo lascia passare e Bearzot prende il settebello. Così vince anche quella partita, nella quale c’è tutto il suo repertorio: il 7, la finta, l’avversario dribblato e disorientato, l’assist vincente e il gol finale del Vecio. Ma stavolta non è un terzino ad essere raggirato, è il Presidente della Repubblica, che si arrabbia moltissimo, ma con l’immensa felicità nel cuore di essere anche lui campione del mondo, come tutti gli italiani. Franco Causio, un’ala antica e moderna, un fantasista barocco e colorato di nuovo, un prodotto nobile del Salento, terra fertile di grandi campioni in bianconero.

Roberto De Frede

P.S. Lo scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafón quando ha scritto sulla fantasia, forse aveva osservato qualche volta FC7 in azione.

Tratto da "Ritratti in bianconero" di Roberto De Frede - https://www.amazon.it/dp/B092PKRN38?ref