“È nostro! La Juve ha blindato e fatto suo il “10” che farà la Storia”
Norimberga-Juventus. Nonostante la storia contemporanea della città tedesca mi spinga a farlo, lungi da me dal “processare” il debutto amichevole della nuova Juventus targata “Motta”. Nella vita non esistono che gli inizi, scriveva Madame de Staël: beh speriamo che l’inizio vero debba ancora arrivare e che il debutto nella città dei giocattoli per eccellenza sia stato solo un brutto scherzo. Diamo per buono, come si suol dire, le frasi “fatte” e quindi... che l’inizio non fa fede, che la prima partita non può essere giudicata, che siamo agli albori “mottiani”, che ci vuole tempo e pazienza, che tutto è in costruzione… ecc. ecc. Bene. Aggiungerei solo un piccolo particolare a questa lista di frasi fatte: per vincere ci vogliono campioni. Che nessuno lo dimentichi.
In questo periodo della calda e bella stagione, oltre ad andar per mercati, rigorosamente con ombrellini parasole, per evitare colpi di testa e buchi nell’acqua, si assegnano anche i numeri di maglia, un tempo operazione romantica quasi a mo’ di investitura cavalleresca. Oggi di romanticismo è rimasto ben poco, però certo vedere di nuovo il numero 10 trotterellare per il campo farebbe un certo effetto, e forse darebbe anche una sensazione di completezza, di ritorno al passato e di speranze di glorie future. Chissà… la daranno a Yıldız? Beh nella rosa attuale è quello che si avvicina di più (o si allontana di meno) a quel numero magico, sperando che il ragazzo abbia letto qualche verso del.suo connazionale Nazim Hikmet per comprendere le vere emozioni che arrivano dritte al cuore, come l’amore fedele per una maglia e il suo numero, come un diciottenne fece…
Era il 1993. La Cecoslovacchia, nazione unitaria costituita il 28 ottobre 1918, cessa di esistere e nascono due nuovi soggetti di diritto internazionale: la Repubblica Ceca, con capitale Praga, e la Slovacchia, con capitale Bratislava; a Lucerna brucia il più antico ponte coperto d'Europa, il Kapellbrücke, costruito nel 1333 interamente in legno; Cosa Nostra è terribile protagonista della strage di Via dei Georgofili e di Via Palestro; Ayrton Senna vince la sua ultima gara in Formula 1; a Mostar l'antico ponte di pietra del XVI secolo, simbolo della città, crolla sotto i colpi di mortaio dell’esercito croato-bosniaco, mentre nelle sale cinematografiche usciva Schindler's List e i Cranberries cantavano Dreams.
A Los Angeles Federico Fellini ritira l'Oscar alla carriera: un regista, un genio la cui caratteristica è la continua unione tra sogno e realtà, tra la razionalità e il pensiero che scorre senza vincoli. E anche i sogni bianconeri di lì a poco sarebbero diventati realtà grazie ad una maglietta numero 10 indossata da un certo
Alessandro Del Piero
O Capitano! mio Capitano! Senza di lui non ci sarebbe stata l’invincibile Juventus a cavallo del XX e XXI secolo, così come senza Madama non ci sarebbe stato lui. Il buono e saggio capitano di mille scontri, che non comandava, ma casomai convinceva, suggestionava, ipnotizzava, e senza dare ordini, i suoi compagni lo seguivano; la meta aveva un solo nome: vittoria. L’idolo, l’eroe della rinascenza, uno dei più seducenti maestri del calcio, colui che richiama le folle bianconere da ogni parte del mondo, di trionfo in trionfo, di ovazione in ovazione. È il pallone che ha bisogno di lui; lo cerca, lo riconosce, e lui gli dà lustro, lo fa cantare con veloci passaggi al millimetro, dribbling che disegnano miniature sul prato verde, gol di tacco e in mezza rovesciata, concepiti e visti un istante prima degli altri. Mago delle punizioni dalle traiettorie imparabili: la sfera è raggiante nelle sue mani, lui la mette a terra, la posiziona, la corteggia, e poi all’improvviso la fa volare, lasciandola danzare nella rete avversaria. Un calciatore che impressionava per le sue enormi doti tecniche, abbinate a velocità, forza e resistenza e per la sua duttilità tattica. Un attaccante universale, gioca da mezzala sinistra, il ruolo tipico del numero dieci, partecipa da trequartista alle azioni più pericolose, e diventa il goleador più prolifico di tutti i tempi con la maglia bianconera, realizzando 290 gol.
Le sue giocate geniali sono ornate di un misterioso fascino fantasioso che le rendono uniche, e universalmente riconosciute “alla Del Piero”: un tiro a effetto dal vertice sinistro dell’area di rigore verso l’incrocio dei pali più lontano. Ogni suo capolavoro in campo è distinguibile da dettagli colorati di luce brillante, proprio come, nelle sue opere quattrocentesche, usava creare con le foglie d’oro zecchino, il grande pittore Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio. E l’Avvocato lo soprannominò proprio così, avvicinandolo al Rinascimento, uno dei momenti in cui l’essere umano è andato più vicino a toccare il sublime.
Un ragazzo educato e perbene, dalla raffinata signorilità, che per vent’anni, per 705 partite, record assoluto, ha onorato la bandiera della Juventus, in ogni angolo del pianeta, ricevendo l’omaggio della standing ovation dai tifosi avversari: da brividi quella dei madridisti al Santiago Bernabeu nel novembre del 2008. Tutti in piedi, dopo aver ammirato una doppietta di rara classe, un sinistro maligno a girare e una magistrale punizione delle sue.
Con il suo sorriso, in bilico tra riservatezza e disincanto, ha sopportato gli osanna e le lapidazioni della stampa, sempre con l’aria di chi, dopo aver attraversato una distesa deserta, si scrolli di dosso la sabbia con un solo gesto, quotidiano e preciso. Epicentro di un mondo, il calcio, che ha fatto della dismisura e del clamore il carburante della sua stessa esistenza, lui rappresenta la misura e l’equilibrio. Un fuoriclasse. Lo stile Juve fatto persona, campione di una elegante umiltà, valoroso e fiero, fedele ai suoi colori e alle sue idee, sempre in prima linea nella gloria, così come negli infortuni e nelle sconfitte, sia sui campi di gioco che nei giochi dei tribunali, superati con grande tenacia: il deus ex machina, bussola per avventurieri, faro sul mare notturno.
Nasce a Conegliano, in provincia di Treviso, il 9 novembre 1974. Dopo i primi calci nel Padova, nell’estate del ’93, Boniperti lo porta alla Juventus per cinque miliardi di lire, firmando il suo primo contratto da professionista con la squadra per la quale ha sempre tifato. L’esordio in Serie A avviene il 12 settembre, subentrando a Ravanelli al termine di un Foggia-Juventus, e la domenica successiva, contro la Reggiana, segna il primo dei suoi quasi trecento gol. Da quel momento, due decenni bianconeri di trionfi e di gol leggendari, in Italia e nel mondo, vincendo sul campo da assoluto leader: otto scudetti, una Coppa Italia, quattro Supercoppe italiane, una Coppa Intertoto, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Europea, una Coppa Intercontinentale.
È una cattiveria dover scegliere la perla più bella in un forziere di gemme rare e preziose, ma quel suo gol contro la Fiorentina, in una domenica torinese del 4 dicembre 1994, ha segnato l’inizio del mito senza fine. Il cronometro segna il minuto ottantanove, siamo sul risultato di due a due, quando il terzino Orlando effettua da centrocampo il classico lancio della disperazione verso l’area viola. La palla ricade dalle parti di quel ragazzo con i capelli lunghi e la maglia numero 10 sulle spalle. Del Piero si coordina e colpisce di esterno destro in acrobazia. Un tocco prodigioso, morbidissimo, che diventa un beffardo pallonetto su cui Toldo, il portierone gigliato, non può arrivare. È l’apoteosi. I tifosi eleggeranno quel gol come il più bello dei primi centoventi anni della storia bianconera.
Nella primavera del ’95, Alessandro Del Piero fa il suo debutto con la Nazionale, contro l’Estonia: è l’inizio di una lunga storia d’amore che vive di alti e bassi, di momenti di riflessione, ma anche di memorabili emozioni adrenaliniche. Scende in campo con gli azzurri per ben 91 volte, segnando 27 reti; partecipa a quattro Europei e a tre Mondiali, alzando nel 2006 a Berlino la Coppa del Mondo. Il suo gol del due a zero alla Germania, nella semifinale al Westfalenstadion di Dortmund, è un gesto che arriva da lontano, contro le critiche di coloro che lo davano per finito, ignari del mito dell’araba fenice. In televisione, in primo piano il numero 7 sulle spalle di Del Piero; Jens Lehman, portiere teutonico, in uscita; la gamba di Alex che si avvita con eleganza, imprimendo al colpo di piatto una forza spaventosa. Dentro quel tiro, c’è il graffio di una tigre messa all’angolo, c’è tutto il miglior Pinturicchio, così come nell’esecuzione vincente del quarto rigore nella finale contro la Francia. Due gesti tecnici che danno splendore imperituro anche alla sua avventura azzurra.
Nella storia plurisecolare del calcio, i calciatori che, a prescindere dalla casacca indossata, non possono essere considerati nemici, bensì avversari gentiluomini, sono rarissimi: Alessandro Del Piero è uno di questi.
Il 13 maggio 2012, in uno Stadium stracolmo, è di scena lo scontro scudetto vinto contro l’Atalanta: al minuto cinquantasette, il capitano, dopo l’ultima rete, esce dal terreno di gioco. I quarantacinquemila sono tutti in piedi, in lacrime, a salutare la storia, il loro capitano, ringraziandolo per essersi preso cura per venti anni della Vecchia Signora, non lasciandola mai sola, regalandole trionfi che brilleranno per sempre nella volta celeste del calcio.
Alex, l’El Cid Campeador dei nostri giorni, signore delle battaglie, dai valori morali assoluti di lealtà (Gramsci docet) e fedeltà, eroe senza macchia e senza paura. La maglia bianconera una volta indossata è diventata la sua divisa, rimanendole fedele sempre, malgrado un forzato addio, portandola nel cuore come un prezioso ricordo. I giocatori passano, la Juventus rimane, è vero. Ma quando si guarda quella maglietta numero 10 in campo, non si può fare a meno di pensare ad Alessandro Del Piero, colui che ha reso ancor più leggendaria la squadra bianconera, diventandone l’icona riconosciuta ad ogni latitudine della terra.
Roberto De Frede
Tratto da "Ritratti in bianconero" di Roberto De Frede - https://www.amazon.it/dp/B092PKRN38?ref
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