Qatar 2022 - Il Mondiale della vergogna - Diritti calpestati e migliaia di morti per una cattedrale nel deserto
Rajendra Prabhu Mandaloji, carpentiere quarantenne indiano, padre di famiglia con l'assillo di guadagnare soldi per saldare una serie di debiti che gli toglievano sonno e tranquillità, poi, finalmente, l'opportunità che aspettava: una promessa di salario mensile di 2.700 riyal (circa 700 euro) proveniente da Doha dove avrebbe preso parte ai lavori di costruzione di stadi e infrastrutture per il Mondiale del 2022, una cifra sufficiente a saldare
il debito e mettere al sicuro la sua famiglia. Ma Rajendra Prabhu Mandaloji, in realtà, non farà più ritorno dalla sua famiglia. Al suo arrivo capì subito che qualcosa stava andando storto: ad accoglierlo non c'era nessuno che lo indirizzasse al suo luogo di lavoro e al posto dove vivere, ma soprattutto scoprì che le condizioni contrattuali erano cambiate e il suo salario sarebbe stato di circa 1000 riyal (neanche 300 euro), meno della metà della cifra pattuita prima di partire. Le condizioni di lavoro, in compenso, erano più complicate di quanto immaginato e il peso di un salario che non sarebbe servito neanche a soddisfare le sue esigenze unito alla lontananza da casa spinse Mandaloji al suicidio. Per permettere almeno alla salma di far ritorno dalla sua famiglia, i datori di lavoro chiesero ai suoi colleghi di autotassarsi di circa 500 mila rupie (oltre 6 mila euro) per il trasporto del corpo in India. Una cifra che, naturalmente, non poteva essere pagata e soltanto l'intervento dell'ambasciata permise alla famiglia di Mandaloji di poter dare degna sepoltura all'uomo.
Jagan Surukanti e Akhilesh Kumar, amici e idraulici, uno di 32 e l'altro di 22 anni, impegnati nella costruzione dello Stadio Nazionale di Lusail, l'impianto che ospiterà la finale del Mondiale; una struttura da 86.000 spettatori che prevede un sistema per raffreddare il microclima interno, pur non potendo servirsi di una copertura. Un progetto imponente a cui Surukanti e Kumar stavano lavorando senza sosta fino a quando, nel tentativo di calarsi in profondità per installare un tubo di drenaggio in una delle zone adiacenti allo stadio sentirono la terra crollare sotto i propri piedi e finirono col morire per "asfissia traumatica" praticamente e letteralmente sepolti vivi. Le famiglie dei due uomini, neanche avvisate, vennero a conoscenza della tragedia da alcuni conoscenti e rientrarono in possesso delle salme soltanto dopo un mese dalla morte.
Abdul Majid è un dei tanti uomini morti senza una chiara motivazione. Cinquantaseienne autista di mezzi pesanti, Abdul nel 2014 si trasferì in Qatar dove si era innalzata la richiesta di autisti visti i tanti cantieri aperti. La famiglia non ebbe notizie per tanto tempo fino a quando, un supervisore contattò i familiari per comunicare il decesso dell'uomo. Nessuna motivazione addotta per un uomo che godeva di una salute di ferro, alla sua famiglia vennero inviati appena 125.000 rupie (circa 1500 euro) come compensi arretrati mai ricevuti dall'uomo. Null'altro.
Questi sono soltanto quattro casi degli oltre 6.500 morti circa 12 vittime a settimana (dati portati alla luce da un'inchiesta del "Guardian") in Qatar durante i lavori alle grandi opere per il Mondiale, e a cui vanno aggiunti i decessi di immigrati da altri paesi come Filippine e Kenya e le vittime degli ultimi mesi del 2020. I motivi dei decessi vanno dalle cause naturali (insufficienza cardiaca o respiratoria acuta) a diversi decessi causati da stress termico, stando, del resto, ad un un rapporto dell’Onu per almeno 4 mesi all’anno i lavoratori hanno faticato sotto le temperature del Qatar (tra i 40° d’estate fino ai 48° con le correnti desertiche). E alle famiglie, come nei casi sopra citati, oltre a non dare alcuna spiegazione non sono stati dati risarcimenti. E quando gli avvocati delle famiglie (molti dei quali hanno deciso di lavorare pro bono per andare a fondo nella vicenda) hanno chiesto i risultati delle autopsie, si sono scontrati con la mancanza di autorizzazione da parte del Qatar ad effettuare le autopsie. Vere e proprie bestie da macero rispedite, a suon di soldi, a casa in bare improvvisate.
Le difficili condizioni in cui questi immigrati hanno lavorato in Qatar, perdendo la vita come mosche, sono da attribuire al tristemente famoso sistema del Kafala.
Il sistema "Kafala" è determinato da uno sbilanciamento dei poteri in netto favore dei datori di lavoro a discapito del lavoratore. Uno sbilanciamento che ha portato molto spesso a forme di abuso ai danni di lavoratori che, non avevano la possibilità di far valere i propri diritti tanto da diventare vere e proprie vittime impotenti di sfruttamento e soprusi. Il sistema Kafala attribuisce inoltre ai legali dei datori di lavoro per controllare il lavoratore. Negando la possibilità di cambiare impiego senza aver ottenuto il necessario permesso dallo sponsor o datore di lavoro; e senza tale permesso è negata al lavoratore anche la facoltà di dimettersi e, in taluni casi, di lasciare il Paese senza il necessario consenso. Un sistema che lede abbondantemente le libertà dei lavoratori, soprattutto se questi arrivano nei Paesi di destinazione dopo aver accettato determinate condizioni contrattuali che però poi, molto spesso, non vengono rispettate. Un sistema che, di fatto, impedisce ai lavoratori di contestare qualsiasi tipo di abuso, dato che entrare in conflitto con il proprio sponsor potrebbe portare alla cancellazione del visto costringendo la persona a rimanere nel territorio illegalmente) o, addirittura, alla deportazione.
Per non parlare di violazioni ancora più gravi che rappresentano un'aggravante del sistema kafala poi delle pratiche diffuse, ma illegali, come la confisca del passaporto o di altri beni, limitando la libertà di movimento della persona, e portando, così, il lavoratore ad avere seri abusi fisici e psicologici nell'impossibilità di far valere i propri diritti.
Il sistema "Kafala" si muove, peraltro, in un territorio in cui molte aziende non pagano ancora adeguatamente i propri dipendenti non trattandoli neppure in modo equo con i datori di lavoro che esercitano un controllo eccessivo e totalizzante sulla vita dei lavoratori, costringendoli a lavorare un numero di ore eccessive o impedire loro di cambiare lavoro oppure di ottenere risarcimenti, non potendo aderire ai sindacati e lottare collettivamente per migliori condizioni di lavoro.
Quando la FIFA ha deciso di far svolgere le gare della Coppa del Mondo in Qatar sapeva, o quanto meno avrebbe avuto il dovere di conoscere i rischi nell’ospitare il torneo in un paese che calpesta qualsiasi diritto dei lavoratori, a causa della forte dipendenza del paese dai lavoratori migranti e del grave sfruttamento che essi devono affrontare. Ma ha chiuso o ha voluto chiudere gli occhi. Le uniche parole sulla questione, sono state quelle vergognose del presidente Gianni Infantino quando ha dichiarato pubblicamente: “Quando dai lavoro a qualcuno, anche in condizioni difficili, gli dai dignità e orgoglio. Non è carità. Tu non fai beneficenza. Non dai qualcosa a qualcuno e dici: 'Resta dove sei. Ti do qualcosa e mi sento bene".
Poco da aggiungere, molto su cui riflettere.
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