Tevez, l’Apache che portò il fuoco a Torino

Quando Carlos Tevez mise piede a Torino, era giugno del 2013. L’aria era densa di attese e scetticismo. Nessuno lo diceva apertamente, ma lo pensavano in molti: “Questo qui viene dall’Inghilterra dopo anni turbolenti, prende la 10 di Del Piero, e noi dovremmo credergli sulla parola?”
Ma lui non parlava. Giocava. E quando iniziò a farlo davvero, il silenzio attorno diventò applauso.
Tevez non era uno qualunque. Se lo guardavi da vicino, vedevi le cicatrici dell’infanzia argentina, le ombre di Fuerte Apache, il barrio che lo ha cresciuto tra colpi bassi e sogni troppo grandi per quelle strade strette. Portava la rabbia nei muscoli, ma la lucidità nei piedi. Era un uomo che non giocava per il piacere del gioco, ma per la sopravvivenza. E questo lo capivi fin da subito.
La Juventus era appena tornata grande, ma mancava qualcosa. Mancava il fuoco. Carlos lo portò, come un pugnale stretto tra i denti. Segnava senza fronzoli, senza inchini. A volte pareva che volesse spaccare la porta, più che gonfiare la rete. Altre volte, invece, disegnava traiettorie da artista urbano. Gol pesanti, silenzi eloquenti, braccia al cielo e occhi di ghiaccio.
Divenne in poco tempo il volto feroce di una Juve affamata. Antonio Conte gli diede le chiavi dell’attacco, Massimiliano Allegri gliele lasciò volentieri, lui aprì tutte le serrature: due scudetti, una finale di Champions sfiorata, e un amore mai dimenticato. Quando se ne andò, nel 2015, lo fece senza proclami. Lasciò la maglia e una scia di ricordi, come un cavaliere che dopo la battaglia scompare nella nebbia.
Oggi, mentre il calcio si contorce tra VAR, TikTok e loghi rivisitati, il nome di Tevez resta inciso su quella pietra che non si scalfisce: la memoria vera dei tifosi. Quella che si riaccende ogni volta che si parla di anima, sudore e cuore. Carlos Tevez fu un lampo. Breve, violento, indimenticabile. A Torino, non vinse tutto. Ma accese qualcosa che ancora brucia.
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